In materia di diritto alimentare assume sempre maggiore rilevanza l’approfondimento del profilo della tutela della salute del consumatore nell’ottica del bilanciamento della stessa con gli interessi del produttore.
In tale prospettiva diviene fondamentale stabilire quando un prodotto alimentare possa definirsi affetto da vizi o difetti, ed in quali condizioni il consumatore possa vantare dei diritti.
La peculiarità della materia richiede di isolare due concetti fondamentali: cosa si intenda per prodotto alimentare e quando tale prodotto risulta difettoso.
In primo luogo occorre definire il prodotto alimentare che, secondo l’art. 2 del Regolamento n. 178/2002, è “qualsiasi sostanza o prodotto trasformato, parzialmente trasformato o non trasformato, destinato ad essere ingerito, o di cui si prevede ragionevolmente possa essere ingerito da esseri umani”.

In secondo luogo è necessario analizzare l’aspetto più complesso dell’inquadramento concettuale della categoria del “difetto” partendo dal presupposto che la difettosità del prodotto attiene alla relazione prodotto-produttore.
Per produttore, ai sensi dell’art. 3 lettera d) del Codice del Consumo si intende “il fabbricante del bene o il fornitore del servizio, o un suo intermediario, nonché l’importatore del bene o del servizio nel territorio dell’Unione europea o qualsiasi altra persona fisica o giuridica che si presenta come produttore identificando il bene o il servizio con il proprio nome, marchio o altro segno distintivo”.

Mentre il concetto di “difettosità” si rinviene all’art. 6 della Direttiva 85/374/CEE che definiva difettoso «il prodotto quando non offre la sicurezza che ci si può legittimamente attendere tenuto conto di tutte le circostanze…».
Tale individuazione della difettosità quale mancanza di sicurezza è stata recepita e riproposta, seppur in termini generali e non espressamente riferite al prodotto alimentare, anche nel Codice del Consumo D. Lgs. n.146 /2005. All’art. 117 il prodotto viene definito “difettoso” quando non offre “la sicurezza che ci si può legittimamente attendere tenuto conto di tutte le circostanze”.
Tra le diverse circostanze individuate quali indici vengono riportate: il modo in cui il prodotto è stato messo in circolazione, la sua presentazione, le sue caratteristiche palesi, le istruzioni e le avvertenze fornite; l’uso al quale il prodotto può essere ragionevolmente destinato e i comportamenti che, in relazione ad esso, si possono ragionevolmente prevedere; il tempo in cui il prodotto è stato messo in circolazione; nonché il caso in cui il prodotto “non offre la sicurezza offerta normalmente dagli altri esemplari della medesima serie”.
E’ importante sottolineare come la qualificazione di difetto non riguardi un vizio intrinseco della cosa o una mancanza di qualità, ma venga dedotta in relazione alle aspettative dell’utenza destinataria del prodotto in questione. In tale ottica le aspettative dell’utenza, relativamente ai prodotti alimentari, possono essere definite in termini di prodotto sano e sicuro per la salute umana. Per cui la chiave di lettura utilizzata al fine della valutazione della difettosità di un prodotto alimentare non può che essere la food safety.

Assurge a punto di riferimento primario in materia il già citato Regolamento 178/2002 che, all’ art. 14, detta i requisiti di sicurezza degli alimenti stabilendo il principio generale secondo cui gli alimenti a rischio non possono essere immessi sul mercato se sono “dannosi per la salute” oppure “inadatti al consumo umano”.
Secondo quanto previsto dal legislatore, per determinare se un alimento sia “a rischio” occorre prendere in considerazione:

  • “a) le condizioni d’uso normali dell’alimento da parte del consumatore in ciascuna fase della produzione, della trasformazione e della distribuzione;
  • b) le informazioni messe a disposizione del consumatore, comprese le informazioni riportate sull’etichetta o altre informazioni generalmente accessibili al consumatore sul modo di evitare specifici effetti nocivi per la salute provocati da un alimento o categoria di alimenti”.

La norma, inoltre, fornisce i parametri anche per determinare se “un alimento sia dannoso per la salute”. In tal senso viene disposto di prendere in considerazione:

  • a) non soltanto i probabili effetti immediati e/o a breve termine, e/o a lungo termine dell’alimento sulla salute di una persona che lo consuma, ma anche su quella dei discendenti;
  • b) i probabili effetti tossici cumulativi di un alimento;
  • c) la particolare sensibilità, sotto il profilo della salute, di una specifica categoria di consumatori, nel caso in cui l’alimento sia destinato ad essa”.

La disposizione in esame specifica, inoltre, che per determinare se un alimento sia adatto o meno al consumo umano, occorra valutare se esso sia o meno accettabile per tale tipologia di consumo “secondo l’uso previsto, in seguito a contaminazione dovuta a materiale estraneo o ad altri motivi, o in seguito a putrefazione, deterioramento o decomposizione”.
Ed inoltre, ove un alimento “a rischio” fosse incluso in una partita, lotto o consegna di alimenti della stessa classe o descrizione, secondo l’indicazione del legislatore si presume che tutti gli alimenti contenuti in quella partita, lotto o consegna siano a rischio a meno che, a seguito di una valutazione approfondita, tale presunzione risulti infondata.

Tutela del consumatore e danni risarcibili

La responsabilità da prodotto rappresenta una fattispecie di responsabilità extracontrattuale di tipo oggettivo che trova nel Titolo II della Parte IV del Codice del Consumo dettagliata disciplina, che si affianca al principio generale della responsabilità aquiliana prevista dal codice civile all’art. 2043. Occorre precisare tale tipologia di responsabilità non è assoluta ma, di contro, è subordinata alla dimostrazione del danno, della difettosità del prodotto e del nesso causale.
Al fine del risarcimento del danno da parte del produttore, è dunque onere del consumatore provare di aver subito i danni risarcibili ai sensi dell’art. 123 del D.Lgs. n.206/2005 quali danni alla persona, cagionati da morte o da lesioni personali, e/o danni alle cose derivati da distruzione e deterioramento di cosa diversa dal prodotto difettoso. Per quanto riguarda i prodotti alimentari “difettosi”, questi arrecano più frequentemente danni alla salute con conseguenze sia patrimoniali che non patrimoniali. Con riferimento ai danni patrimoniali il principio basilare del diritto al risarcimento rimane l’art. 2043;
mentre in tema di risarcimento dei danni non patrimoniali con le Sentenze Cass. Civile n. 8827 e 8828 del 2003 si è superata la precedente lettura restrittiva del disposto del codice civile 2059 c.c., che escludeva la risarcibilità degli stessi.

In tema di onere della prova il Codice dei Consumi all’art. 120 prevede che:

  • al danneggiato, spetti il compito di provare il danno, il difetto nonché il nesso eziologico tra gli stessi;
  • al produttore spetti, di contro, l’onere di provare l’insussistenza del fatto lesivo, ovvero l’esistenza di una delle circostanze di esclusione della responsabilità indicate all’art. 118 (prodotto non messo in circolazione, difetto non esistente al momento della messa in circolazione del prodotto, prodotto non fabbricato per la vendita, stato delle conoscenze tecniche e scientifiche al momento della messa in commercio del prodotto, difetto dovuto a norma giuridica o provvedimento vincolante).

Per quanto attiene, invece, ai profili relativi a prescrizione e decadenza, il diritto al risarcimento si prescrive in 3 anni a decorrere dal giorno in cui il danneggiato ha avuto o avrebbe dovuto avere conoscenza del danno, del difetto e dell’identità del responsabile.

Quanto alla decadenza, il diritto al risarcimento si estingue dopo 10 anni dal giorno in cui il produttore o l’importatore nell’Unione ha messo in circolazione il prodotto che ha causato il danno.